domenica 27 marzo 2016

francesco motta | la fine dei vent'anni

Vorrei correre più veloce, ma non ce la faccio. Allora punto sulla resistenza.
Vorrei potertelo dire, come ho sempre fatto. Ma parlarne lo renderebbe troppo vero e io non voglio crederci. E tu, comunque, non approveresti.
Allora sogno, almeno da lì posso incontrare le persone che ho perso. E forse non ne ho bisogno, perché come posso condividere quello che non riesco neppure a comprendere?
Siamo partiti da lontano per arrivare ad essere contenti. Ma poi ci basta un giorno per schiantarci e io posso solo provare a perdonare me stessa - perché nessun altro condonerà i miei errori - ma non posso continuare a perdonare te.
Quando si è più di uno, ci sono troppe incognite e fattori non controllabili. Ma alla fine ci rivedremo, lo so, sto solo aspettando.
Sto aspettando perché sono preoccupata, ma ci sto lavorando.
Ora lo so: non mi interessa più stare male.
Quindi educatamente, con un po' di tristezza.
Quando non ce la faccio più.
In silenzio, senza fare rumore.
Vado via.

sarebbe bello finire così
lasciare tutto e godersi l'inganno, ogni volta
la magia della noia
del tempo che passa la felicità.

sabato 19 marzo 2016

per te.

Chissà tu cosa hai pensato quando mi hanno lasciato sola.
Se l'avevi già capito che l'avrebbe fatto e ti tenevi pronto. Oppure se ha sorpreso anche te e ti sei trovato a fare i conti con una me stessa incrinata e umida.
Tu, che non ci sei abituato e che ci hai provato a modo tuo.
Tu, che alla prima telefonata sapevi già tutto mentre io per capire quella stessa cosa ci ho rimesso un pezzo di me. Però a casa per pranzo ci sono tornata lo stesso. E in spiaggia sotto il sole alla tua telefonata ho risposto - anche se non sapevo che eri tu. Anche se mi veniva da piangere e per me era un giorno triste, come quello prima e come quello seguente. Anche se non lo avevi mai fatto di chiamarmi di persona per dirmelo.
Chissà cosa pensi ora. Mentre io parto e tu resti sempre qui e ti accontenti delle mie risposte sterili per girare il mondo. Mentre faccio un altro passo della mia vita e chiamiamola, se vuoi, responsabilità.
Chissà come mi vorresti. E se lo pensi che sono bella quando ogni tanto torni a casa e mi trovi lì. Se mi vorresti toccare per essere sicuro che ci sono ancora o se ormai ti sei abituato alla mia assenza e ti basta rimirarmi da quella distanza che hai sempre tenuto tra di noi.
Chissà se ti siamo mai mancate, io e la mia fame di abbracci. E se davvero non fa differenza che me ne vada via per tre giorni o per tre anni, visto che al ritorno non sai dirmi sempre la stessa cosa.
Il passato non è un alibi, ok, ma tu mi hai fatto male di silenzio quando non potevo difendermi e ho costruito muri troppo alti per stare su. Di fronte a te.
Questo è tutto quello che posso fare per provare a dirtelo.
Io l'ho capito dai tuoi gesti e tu non puoi controllarmi.
A volte non sbaglio, lo sai?
Papà.

giovedì 17 marzo 2016

daughter | not to disappear

Ho pensato che ci devo fare l'amore io. Che deve essere fantastico. E per questo ho detto sì.
Ho pensato che ci leggerò, ti starò addosso, che ci diremo chissà quante cose e che ci mangeremo sopra facendo poca attenzione come nostro solito. Per questo ho detto ancora sì.
Ho pensato che è per me, che il sole entra dalle finestre, che lì ci potevo stare. E per questo ho detto subito sì.
Perché hai talmente tanti errori che sei la cosa sbagliata assolutamente perfetta per me. E chissà se ce la faremo. Chissà quanto ci metterai a chiedermelo. Chissà se pensi davvero che la tua strategia funzioni: che se non mi fai domande allora è come se non fosse vero, come se non ci fosse nulla da alimentare mentre invece semplicemente non ti stai interessando a me. Perché io sono anche quello.
Lo tengo chiuso in me, non ti preoccupare. Stordita nel mio regno, non ti invaderò. Hai altre cose di cui occuparti.
Fuori è pieno di pericoli e voi siete alcuni di quelli.
Allora chiudiamo gli occhi e vieni qui.
Perché a questo posto ho detto sì. E non vedo l'ora.
Perché a te - ancora una volta - ho detto sì.
E mi farò sentire viva.

sabato 12 marzo 2016

wintersleep | the great detachment

È stato troppo difficile per me incontrarti nel momento sbagliato.
La mia fragilità all'estremo. La mia immensa voglia di averti accanto. E tu, con i tuoi pensieri neri incastrati tra le sopracciglia e la paura di essere braccato negli occhi.
Eravamo fatti per scontrarci e per sfuggirci. Eravamo fatti per riconoscerci e poi legarci il petto. Eravamo fatti. E ci siamo fatti male.
Io, almeno, ti ho messo in mano le armi migliori.
Vivevo di noia e della mia lunga insonnia. Vivevo nei luoghi in cui bisogna guardare in faccia il terrore e l'ansia. Dove bisogna saper calmare i nervi e contenere l'anima. Vivevo sola - senza neppure me stessa. E avevo molto freddo.
Poi è arrivato il giorno in cui ho capito che non dovevo più scendere in centro. Perché già ci abitavo dentro. Quello in cui ho sperimentato che le cose restano sempre dove le hai lasciate. Ma alcune tornano e chissà se mi vedrai addosso quello che sono, adesso - se mai un giorno saremo ancora uno di fronte all'altro.
Non aspetterò che scappi. Questa volta non ti aspetterò.
Non farò cose spiazzanti perché ti ho già detto tutto. E tutto quello che ho da dire si può riassumere con me e te.
Una parte di noi lo sa. Poi un'altra pensa che sia meglio se ci stiamo lontano.
Funziona così, si combatte ancora.
Possiamo vedere come va.
O ritirarci fin da ora.